E non mi sbaglio, il sole riuscirà alla fine a riscaldarmi la pelle, e le strade che si snodano tra pascoli e vigneti, salendo repentine affiancate da canyon profondi faranno il resto. E il vento che mi sferza il volto per la prima metà del percorso ha un vantaggio: al ritorno è in poppa, e ne approfitto per tenere medie che per i miei standard sono fantastiche.
C’è anche disappunto. Un signore sulla sessantina cade appena avanti a me. Si contorce al suolo, il volto massacrato e sanguinante. Una provvidenziale infermiera ciclista lo prende in carica, come vorrei avere la calma e la competenza necessaria per prestare soccorso a qualcuno, penso, ma sarebbe già bello non svenire alla vista del sangue. E dopo nemmeno dieci minuti sentiamo le sirene di ambulanza e pompieri (immancabili in occasione di ogni incidente) e ripartiamo.
Poi Drum Canyon, una salita tanto faticosa quanto la stretta valle attorno alla quale la strada dissestata sale a spirale era idillica. Era, perché ora pompe e trivelle iniettano nel sottosuolo i veleni usati per fracking. Non sembra possibile. Poi lo sguardo cade sulla scoscesa riva che porta a un torrente stagionale, dove i redneck locali gettano frigoriferi, poltrone e cucine a gas, e quintali di vecchie gomme. Scuoto la testa, non c’è niente da fare, we are doomed by stupidity, mi alzo sui pedali e in un attimo sono in cima, pronto alla lunghissima discesa finale, con il vento ora amico che mi spinge fino all’arrivo.
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