La caratteristica che più apprezzo delle città è che, presto o tardi, finiscono. Scompaiono nel mio minuscolo specchietto retrovisore, le immagini tremolanti si sbriciolano e svaniscono nella coltre di verde. Non è qualcosa che capita spesso nella California del Sud dove abito, dove città dopo città si fonde in un unico lungo sobborgo. Ma Santa Cruz è diversa. Western Drive segna effettivamente il confine ovest della città, e poi ci sono solo canyon verdi per miglia e miglia. Così la Highway 9, dopo una breve sezione industriale, sprofonda e risale tortuosa nel cuore delle montagne. La strada segue l’alveo profondo del San Lorenzo, che normalmente è poco più che un rigagnolo, ma che le piogge di quest’anno hanno trasformato in un torrente che ruggisce fangoso. Si sale attraverso una foresta gocciolante di redwood, sopravvissuti ai tagli del XIX secolo e protetti nell’area del Cowell Park, si seguono i binari di una ferrovia a scartamento ridotto che trasportava legname ed altri materiali a valle.
Al termine di un falsopiano la strada scompare in un banco di nebbia. È spuntato il sole al di sopra della coltre verde sovrastante, e una lama di luce taglia attraverso tronchi ricoperti di muschio come una Excalibur dorata. L’effetto allucinogeno è garantito. Un lavoratore della Caltrans solitario riapre a badilate uno storm drain sepolto dai detriti trascinati dalle piogge torrenziali di stamattina. La barba lunga, il corpo e le membra tozzi, mi guarda passare con occhi incolori: sembra proprio uno dei nani minatori di Tolkien. Poi un’Honda CRV argento mi sorpassa rombante, e una zaffata di fumo di marijuana mi investe. Non siamo alla corte di Re Artù né nella terra di mezzo, ma decisamente tra le montagne di Santa Cruz.
Salgo piano, sul 39, il traffico è infrequente ma i locali non risparmiano sull’acceleratore, e voglio avere la possibilità di farmi da parte rapidamente o fermarmi dove la strada è più larga. Un loro errore di valutazione e finirei come un pacchetto di carne trita sul banco del macellaio. Eppure mi illudo che siano avvezzi ai ciclisti, e quasi tutti sono cortesi. Solo un altra bicicletta passa però nella direzione contraria. Un homeless atletico, i lunghi capelli biondi bagnati dalla pioggia, con uno zaino sul manubrio delle dimensioni di una carcassa di cervo. O forse era una carcassa di cervo? E non era vestito di pelli? Questa foresta comincia a farmi un effetto strano.
Alle porte di Felton, ricomincia a piovere forte. Mi avvolgo nell’impermeabile ma so anche che la visibilità degli automobilisti sarà sempre più ridotta. Non mi rimane che girare la bici verso valle, non senza una nota di rimpianto e una promessa di ritornare. Scendendo faccio affidamento sulle Vittoria Randonneur, gomme fantastiche per chi voglia passare dalla strada allo sterrato e navigare pozzanghere, piogge torrenziali o l’asfalto sconnesso della città. Come arrivo a valle, il sole esce di nuovo, sghignazzando dispettoso.
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